Sulla possibilità di una coscienza nell'IA
- Lorenzo Gianuario
- 13 apr
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 5 mag
Dal cinema di Godard alle riflessioni di Bergson, l'IA nell'arte e nella filosofia.

Stabilire in che misura nelle macchine si possa riscontrare una individualità che travalichi la mera intelligenza orientata al problem-solving, una dimensione interiore soggettiva fatta di riflessività e cognizione di sé, di emozioni che possano dirsi autentiche, è il grande interrogativo che sottende al dibattito sull’intelligenza artificiale sin dai suoi esordi.
Negli anni Sessanta si accese una viva discussione, specie in campo artistico e filosofico, circa la possibilità di ricreare in laboratorio non soltanto un’intelligenza in senso stretto, ma una vera e propria fenomenologia cosciente – in altri termini, infondere vita alla macchina, una fantasia capace di ispirare, parimenti, sia la creatività che il senso critico di numerosi artisti. Fra questi c’è sicuramente Jean-Luc Godard, con il celebre film del ‘65: «Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville».
Con una pellicola in bianco e nero in stile noir, il regista francese metteva in scena un futuro distopico di un pianeta straniero dominato da un potente computer di nome Alpha 60. Il governo da questi operato si presenta come una violenta e sanguinosa dictature de la logique, e nel degrado di una città ridotta a un girone infernale popolato da automi senza più traccia di interiorità e profondità umana, le emozioni sono rigorosamente bandite. Allo stesso modo è vietato pronunciare parole incomprensibili al linguaggio macchina, parole bandite da tutti i dizionari, come coscience e amour.
È su queste infrazioni che incorre l’agente segreto Lemmy Caution, il quale giunge ad Alphaville dal pianeta Terra con l’obiettivo di liberare il professor von Braun. Questi è l’inventore di Alpha 60, finito ostaggio della sua stessa invenzione. Al suo arrivo in hotel, Caution viene accolto da Natasha, la figlia dello scienziato, donna tanto attraente quanto ignara della vastità dell’universo dei sentimenti umani. Di fronte alle esplicite avances di Caution, lei si ritrae intimorita e lo accusa di voluttà, mentre lui, prontamente, controbatte: si tratta di amore – la voluttà è soltanto una conseguenza esteriore.
Ma la parola proibita è stata pronunciata, il divieto è infranto: un istante prima dell’intervento repressivo della polizia affiora in Natasha un anelito improvviso che si traduce nella domanda: «cos’è l’amore?».
La risposta non si lascia attendere, ma trae significato proprio dalla sua stessa inafferrabilità: sullo schermo, una serie di fotogrammi si susseguono in un’alternanza di luci e ombre, mentre una voce narrante recita i versi di Paul Èluard: «Ta voix, tes yeux, tes mains, tes lévres, nos silences, nos paroles, la lumière qui s’en va, la lumière qui revient…». Godard sceglie la poetica surrealista, l’unica ritenuta appropriata a esprimere ciò che non può esser comunicato se non attraverso un linguaggio dove gli elementi del discorso sono disarticolati, e pur sempre tenuti insieme da qualcosa di indecifrabile, non attinente a regole sintattiche.
Il linguaggio della poesia, più di ogni altro, infrange la rigidità della logica grammaticale, a sua volta speculare a quella logica del calcolo sequenziale che dominava la teoria dell’intelligenza artificiale in quel periodo. Per Godard, è evidente, non c’è alcun compromesso possibile tra la macchina e le emozioni. La sfera misteriosa della coscienza, da cui trae origine il sentimento, è totalmente assente all’interno di un’entità che pur perfezionata ai massimi livelli tecnologici deve il suo funzionamento a codici rigorosamente logico-matematici.
Emerge, anche da uno sguardo più attento allo stesso capolavoro di Godard un altro profilo fondamentale: il rapporto tra interiorità ed esteriorità. Lo scenario distopico di Alphaville ci presenta una realtà plasmata ad immagine e somiglianza del computer Alpha 60, dove l’interiorità umana viene aspramente repressa e annullata, così come è altrettanto assente un’interiorità nello stesso cervello artificiale. Inoltre, le contrastate atmosfere notturne, tipiche del genere noir, sono allusive della non corrispondenza tra le due dimensioni: l’una, quella esteriore, impeccabile nella sua sfavillante logicità, l’altra, quella interiore, degradata, buia, e quasi assente.
Ebbene, la dimensione dell’interiorità va intesa come componente psichica non declinabile in linguaggio logico – quindi, indecifrabile – e altresì non riducibile a fenomeni biochimici: si tratta in altri termini dell’«intuizione», che è parte integrante dell’«intelligenza», e che la travalica.
Come scrive Giorgio Bonaccorso [1] l’intuizione «è innanzitutto la passione (l’emozione) per la disobbedienza, ossia la rottura del processo deterministico»; ed è proprio la capacità di disobbedire a rappresentare il perno attorno al quale ruota un’altra pellicola cinematografica, quella di Ex Machina (2014), di Alex Garland.
Questa è invece la storia di Ava, una seducente donna umanoide che viene sottoposta al test di Turing da parte del suo inventore e programmatore, un ricco scienziato di nome Nathan Bateman. Questi, chiede la collaborazione di un giovane programmatore di nome Caleb per effettuare il test, invitandolo a trascorrere una settimana nella sua villa situata su un’isola di sua proprietà. L’obiettivo è capire se Ava possieda una coscienza reale, soggettiva e non simulata. Per fare questo Caleb trascorre del tempo conversando con lei, e così, fra i due scatta un’intesa tale che la donna robot si lascia sfuggire una sommessa richiesta di aiuto: senza fornire spiegazioni, lo esorta sottovoce a non fidarsi assolutamente di Nathan.
Caleb non riferisce l’accaduto a Nathan, ma è pronto a vederci chiaro. Sente di potersi fidare di Ava che con la sua ingenuità e avvenenza suscita in lui attrazione, commozione e senso di protezione.
Quando scopre che sull’isola sono segregati numerosi prototipi di donne umanoidi, comprende in quale degrado morale versa Nathan: l’inventore, infatti, sfrutta le sue “creazioni” al fine di soddisfare le sue fantasie sessuali e per compiacere il suo ego, ormai esasperato da crisi depressive fuori controllo. La scoperta della verità fa esplodere in Caleb un moto di rabbia e disgusto che lo spinge a escogitare un piano per portare Ava fuori da quell’inferno. L’esito sarà inaspettato: Ava gioverà dell’azione di Caleb, e al momento opportuno, non farà nulla per salvarlo, lasciando imprigionato sull’isola e dimenticandosi completamente di lui.
Nel lavoro di Garland, il rigido processo deterministico tipico dei sistemi IA di vecchia generazione viene palesemente sconfessato: l’intelligenza artificiale integrata in Ava si estende ben oltre la rigida logica di Alpha 60. In lei alberga un’intelligenza «generativa», la stessa che si riscontra nella più moderna tecnologia, dove la macchina “disobbedisce” alle previsioni del programmatore, dimostrando capacità di «intuito» – da intendersi, questo, secondo la definizione sopra riportata.
Ma in Ex Machina, l’accento è posto soprattutto sulla dinamica sentimentale che si instaura fra l’uomo e l’umanoide, e ciò costituisce un punto di vista decisamente distante da quello rappresentato nel classico di Godard: se fra l’uomo e la macchina si crea una tensione affettiva come quella che intercorre fra Caleb e Ava – anche se dovuta alla mera proiezione che l’uomo fa della propria stessa interiorità cosciente sopra il volto “ingannevole” della macchina – si verifica quello che il test di Turing esige come requisito sufficiente e necessario per una risposta positiva all’interrogativo di partenza. In altri termini, e semplicisticamente, se la macchina dà l’impressione di avere coscienza ed emozioni, significa allora che le possiede.
Eppure, i dubbi vanno moltiplicandosi e il tema della coscienza resta sempre controverso, non solo in riferimento ai moderni modelli computazionali, ma anche alla robotica IA e al modellamento del sistema sensomotorio umano, che di per sé implica un rimando al body-mind problem. Difatti, alla luce dei paradigmi posti da sempre alla base della robotica IA, embodied e human-inspired, è superfluo ritenere che una coscienza nelle macchine debba essere prospettata similmente a quella dell’uomo, considerato che altrimenti potrebbero ipotizzarsi persino forme di coscienza totalmente diverse da questa.
Ma rimanendo sul fronte del body-mind problem si osservi che le posizioni si dividono tra coloro che non riconoscono alla coscienza umana alcuna dimensione ontologicamente distinta rispetto al sostrato corporeo – come appunto vale per i sostenitori del materialismo riduttivo [2] – e coloro che invece assumono una posizione dualistica: per quest’ultimi, la questione implica, innanzitutto, che vi sia una separazione netta fra la dimensione cerebrale e la dimensione astratta, cioè mentale. In entrambi questi casi, si registra però una lettura non equilibrata tra interiorità ed esteriorità, errore che accomuna ugualmente i due approcci, e che consiste nel non comprendere quanto fondamentale sia l’interrelazione di mente e corpo nel fornire il sostrato mediano su cui si dispiega la coscienza.
A tal proposito, vale la pena ricordare il contributo influente dato da Henri-Louis Bergson che ebbe il merito di aver compreso prima di altri la limitatezza degli strumenti della psicanalisi in ordine alla soluzione dei grandi interrogativi che ruotano attorno al body-mind problem e alla coscienza umana. Egli sposta altrove la sua attenzione dalla prospettiva “cieca” della psicanalisi positivista, traslando le conoscenze acquisite in ambito scientifico verso un piano di più ampio spettro, quello filosofico.
Nello studio sul rapporto fra materia e memoria (1896), egli inaugurava una linea di pensiero collocata sul versante dualista, ma inedita sia rispetto al positivismo che all’idealismo e consentiva di recuperare nel dibattito scientifico una dimensione spirituale dell’uomo, coincidente con la memoria – quest’ultima, intesa come il livello più elevato e trascendente della psiche.
La riflessione è incentrata sul dualismo corpo e spirito – cervello e mente – materia e memoria: per Bergson la memoria è innanzitutto il piano dell’immateriale, non riducibile a soli fenomeni biopsichici, e dove le immagini della realtà, che sono il contenuto stesso della percezione sensibile, si sovrappongono, accumulandosi in una dimensione astratta dove passato e presente coincidono – il piano dell’assoluto. Le immagini della realtà sedimentate nella memoria, secondo la sua prospettiva, sarebbero persino più veritiere, perché mostranti la vita nella sua durata, ossia, nella sincronicità di passato e presente, e non nella contingenza di singoli istanti – fotogrammi – come appresi nell’istantaneità della percezione sensoriale.
Materia e memoria sono due poli in correlazione, posti in un’interferenza bidirezionale dove lo stesso contenuto della memoria, con tutto il suo portato affettivo ed emozionale, rifluisce a ritroso sul piano della materia, nel punto di contatto che è la percezione sensibile, integrandola: percepire è in gran parte ricordare, egli scriveva nel suo trattato. Il toccare un oggetto, e il sentire il contatto con l’oggetto, non sono sinonimi, ma i due versanti della percezione, che si compenetrano al punto da non poterne cogliere la distinzione. La percezione, in altri termini, è il livello più basso della memoria. In questa reciproca implicazione fra l’interiorità della memoria e l’esteriorità della percezione ha luogo la coscienza, che si muove fra di esse, le sovrasta e le travalica entrambe.
Bergson inaugura quell’approccio intermedio che si pone fra le due posizioni estreme di coloro che materialisticamente ritengono che tutta la dimensione psichica si esaurisca in meccanismi biochimici cerebrali, negando rilevanza a una dimensione spirituale «altra» rispetto alla materia, e chi, invece, idealisticamente ritiene che tutto sia pensiero, negando rilevanza all’esperienza empirica – l’Erlebnis – alle evidenze cioè della materia. Entrambe queste impostazioni conducono allo scetticismo, lasciando irrisolti tutti gli interrogativi sulla coscienza, come anche dell’individualità, della libertà, della morale ecc.
Dunque, nel riportare la psicanalisi fuori dalla palude del positivismo, e senza però cadere nei dogmi dell’idealismo romantico e dello spiritualismo, Bergson riponeva nei giusti termini la relazione fra l’interiorità e l’esteriorità in un rapporto alla pari: riconosceva piena voce in capitolo ad entrambi, materia e spirito, aprendo altresì la strada per un riscontro della coscienza su un piano sovraordinato, e pur sempre inscindibile rispetto ad esse: a ben vedere, questo dovrebbe costituire un punto fermo nell’indagine attuale sulla coscienza dell’uomo, come delle macchine. [3]
Su una linea altrettanto distante da positivismo e spiritualismo, si colloca la fenomenologia di Husserl: il filosofo tedesco, nel progetto di rifondare una conoscenza filosofica basata sull’evidenza, cioè sui dati non mutevoli dell’esperienza, assume un approccio diverso da quello adottato dalle scienze naturali: nella fenomenologia husserliana la conoscenza del mondo deve procedere prestando attenzione non tanto ai fatti così come essi risultano dal dato immediato, ma assumendo un atteggiamento più critico è necessario guardare alla loro essenza. Quest’ultima, a sua volta, può essere colta soltanto se letta in relazione al modo in cui gli oggetti stessi si presentano nell’esperienza, cioè nel perimetro dell’intenzionalità della coscienza pensante, vale a dire, nella misura in cui costituiscono oggetto degli atti della coscienza (l’atto del pensare, dell’associare, del percepire, del ricordare, del desiderare ecc.). È ciò che Husserl chiama processo di riduzione delle cose alla loro essenza. In quest’ottica, la coscienza, per Husserl, è il risultato finale della riduzione – è il residuo fenomenologico – il dato immateriale non riducibile ad altro che a sé stesso, ovvero, l’Io puro.
Pertanto, se «la coscienza è intenzionalità, ed è sempre coscienza di qualcosa» [4], essa è allora un qualcosa di immateriale, e questa considerazione ci spinge chiaramente lontano dal materialismo positivista. La coscienza come intenzionalità si distanzia anche dallo stesso spiritualismo, perché l’intenzionalità è rivolta all’esterno, mentre lo spiritualismo fonda la propria conoscenza del mondo sulla via unica dell’introspezione, ignorando totalmente l’Erlebnis. Husserl, come Bergson, si allontana da posizioni tradizionali positiviste e idealiste, e anche se in termini diversi da egli, recupera l’equilibrio tra la dimensione interiore della psiche ed esteriore della materia, un aspetto fondamentale da non tralasciare nella riflessione sulla natura della coscienza dell’uomo.
In questa indagine diventa fuorviante l’assunto di Turing secondo cui basterebbe che la macchina appaia come cosciente, per stabilire la sussistenza di una coscienza effettiva al suo interno. L’apparenza che risulta dal modellamento dell’intelligenza umana, resta mera apparenza. Essa può tuttavia superala in calcolo, velocità e capacità di memoria, ma l’intelligenza naturale si espande su livelli di profondità, riflessività, affettività e soggettività che l’intelligenza artificiale può soltanto simulare nella loro apparenza e mai realmente possedere.
Inoltre, laddove viene fatta distinzione fra intelligenza operativa e intelligenza riflessiva come avviene per l’intelligenza naturale, la stessa distinzione non può dirsi per le macchine: queste mancano infatti di una dimensione subconscia capace di dare loro tridimensionalità e caratteri di personalità. L’errore sarebbe quello di un riduttivismo che assimila la mente umana alla sola intelligenza operativa: la macchina presenta sì un funzionamento simile alla mente umana, ma questa similarità non deve indurci a ritenere che in quell’apparenza esteriore si celi la misteriosa sostanza dell’anima, la fiamma della coscienza, insomma, lo spirito di vita.
[1] Bonaccorso Giorgio; Coscienza e intelligenza artificiale: l’intelligenza dell’intelligenza, Rivista di Scienze dell’Educazione, gennaio/giugno, 2024
[2] Boden M., L’intelligenza artificiale, Bologna, 2019
[3] Bergson H., Materia e memoria, Bari; 2019
[4] Cambiano G., Mori M.; Storia della filosofia contemporanea, Torino, 2021
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